Elisa Traverso Lacchini

Recensioni

Giuseppe Magini - 2010 - Ardore pittorico e barocco contemporaneo nell’arte recente di Elisa Traverso Lacchini

Quando faccio visita per la prima volta alla raccolta delle opere di un’artista, di quelle che normalmente l’artista ancora conserva della sua attività lontana e di quelle recenti – alcune forse ancora fresche di vernice – mi trovo a fare i conti con le impressioni del primo impatto. Cerco poi di ripensare all’esperienza fatta e non è infrequente che – a mente fredda e ragionante – modifichi il mio primo sentire.
Questo – almeno in parte – mi è accaduto anche per il lavoro pittorico di Elisa Traverso Lacchini.
Entrando a casa sua ho apprezzato un grande paesaggio a spatola del 1969 rappresentante l’isola greca di Idra, un intrigante olio di gusto “Novecento” (è del 1992) dal titolo “Vado visto dalla Fortezza”, la moderna allegoria della “bimba del mare”, l’immagine di un’altra “Fanciulla che disegna”, perfino la sedia chiavarina trasformata da Elisa in pezzo d’arredo futurista, alcune dettagliatissime tecniche miste – emozioni quasi surrealiste – dei “tempi di scuola” (come Elisa definisce il periodo – dal 1970 al 1975 – in cui ha insegnato al Liceo Artistico “Martini” di Savona “Figura disegnata”.
Mi sono poi imbattuto – dentro il luminoso abbaino-studio-vista mare di Elisa – nel fiorire (adopero questo verbo con vera intenzione) di forme animanti un pittoricismo espressionista-astratto che non nega il figurativo ma lo adombra, lo fonde, in certi casi perfino lo disarticola e lo travolge.
Il passaggio non è stato per me del tutto tranquillo e confesso che ho lasciato con un certo rammarico la visita ai “prodotti di un tempo”, anche se ho avuto la percezione che questa corrusca novità (se così la si può chiamare) trovi i suoi prodromi in certi disegni colorati precedenti di Elisa, disegni complessi, turgidi e appassionati che Elisa mi ha promesso di portare in mostra raccolti in una cartella. Magari Elisa ha sempre – magari inconsciamente – amato decisamente il Barocco, ma l’insegnamento l’ha portata a coltivare a lungo più modelli espressivi, anche per affinare la comunicatività didattica.
L’artista mi ha scritto una lettera dopo la mia visita al suo lavoro. Da essa ho stralciato alcuni passi che riproduco accanto al testo della sua nota biografica, passi che mi sembrano utili a spiegare – insieme a questa mia prova di commento – la sua “ripresa pittorica dal 2003”.
Azzardo addirittura un’ipotesi; se il Barocco potesse considerarsi rivivere – nel nostro tempo – nell’espressionismo o – meglio ancora – in un espressionismo corretto da vibrazioni surreali (si faccia debita attenzione agli “amori artistici” dichiarati dalla pittrice nella lettera a me inviata) potremmo forse capire meglio il lavoro di Elisa. Non voglio comunque avventurarmi in difficili questioni nominalistiche, ma non mi sembra secondario annotare che una ricerca di “Barocco contemporaneo” si ritrova – nell’arte recente e attuale – anche nella produzione di architetti e scultori. Perciò Elisa mi sembra in buona compagnia.
Ancora: non è la prima volta che vedo un’artista avviata verso esiti distinguibili da quelli della sua più giovanile età e che sente gli anni di questo principio di millennio come anni di incipiente distacco da una vita trascorsa in più tranquille meditazioni sul suo intorno culturale.
Credo che questa fase aperta sia molto significativa nel lavoro di Elisa, tanto che sono convinto che essa possa costituire il contenuto essenziale della sua “personale” del maggio 2010 presso la “Galleria d’Arte del Cavallo” a Quiliano.
Il compito o – se si viole – il piacevole impegno dei visitatori di questa mostra può essere quello di approfondirne il carattere.
Non è vero comunque che tutti i lavori degli ultimi anni di Elisa attingano agli aspetti innovativi accennati. Ad esempio la “Madonna della Colonna”, in cui la pittrice viene condotta a ripercorrere sentimentalmente i tratti di una storica immagine sacra savonese, è del 2009; la “Sacra Famiglia” del 2008 si avvicina ad icone di composizione tradizionale; recenti sono pure i tratti fastosamente classici delle “Regine”; del 2007 sono i tendenziali cubismi di “Liguria” e di “Cervo Ligure”.
Tento di individuare alcune fasi del lavoro innovativo di Elisa:
-con “Sciame n° 2” (2007), “Fioriuccelli” (2009), “Volo fantastico” (2009) i soggetti roteano e sfarfallano in composizioni decorative di spiritoso dinamismo. Il movimento all’interno del quadro non verrà mai del tutto trascurato, ma qui esso raggiunge un suo culmine;
-con “Uomo pesce” (2005), “Madre Terra” (2005), “Il vento nei capelli” (2005), “La pesantezza dei fiori” (2005), “Danza nel blu” (2006), “Autunno” (2008), “L’estate” (2010) entriamo in siti più complessi e differenziati: la figura vi diventa pretesto, l’organico-figurativo si sfalda, compare il mito, i colori sembrano sfagliare, si aggrumano in nuclei a scivolo, turbinano intorno a sagome e fantasmi del reale, celebrano convegni e feste di ricca affabulazione, diventano insomma – con eccitazione – i protagonisti assoluti del quadro;
-il massimo sfagliamento mi pare di vederlo in lavori come “Immagine musicale” (2010), “Il suono del flauto” (2010), “Il sole” (2010), “L’esplosione” (2010), nei quali viene raggiunta una temperie espressionista-astratta quasi ossessionante, aggressiva, investita da forze altalenanti dilatate e rapprese, morbide ed incisive insieme.
Elisa sente, in queste diverse fasi, quasi l’esigenza di circondare i compatti pittorici della narrazione con una stesura di colore monocromo e algido (una specie di precornice) perché da un lato essi obbediscano ad uno spazio conchiuso e dall’altro accentuino – con l’isolamento – la loro vitalità.
Quella che ho chiamato “precornice” mi tenta a proporre l’inessenzialità della cornice lignea tradizionale per questi lavori: la parte di tela monocroma, risvoltata ai margini del quadro, potrebbe addirittura costituire una modalità adatta alla presentazione di molte di queste composizioni.
Il “percorso” imboccato da Elisa di cui sto parlando mi ha interessato anche perché altri artisti – a un certo punto del loro cammino – mi pare abbiano aggiornato la loro parlata pittorica.
Al di là di certi naturalismi segmentati e tormentati della pittura del dopoguerra (Birolli, Sutherland, Ernst…) mi sono venute in mente le realizzazioni della tarda maturità di Joan Mirò (1893-1983) e di Georges Braque (1882-1963).
Il Mirò degli ultimi anni di lavoro abbandona le composizioni oniriche surrealiste e “dada” e si immerge in un movimento senza moto, in un senso di infinito senza limite e senza tempo, rappresentato esemplarmente dalle famose tre grandi tele blu, dove ci si smarrisce in quello spazio misterioso che avvolge con la profondità dell’azzurro e si ha la sensazione di una progressione ritmica, quasi di una musica creata dalla serie di macchie di forma circolare di diversa misura e intensità che sembrano note musicali e procedono partendo da una striscia verticale di colore.
Il cubismo di Braque e il suo risognato classicismo si chiudono – intorno ai sessant’anni dell’artista – con l’immagine emblematica di uccelli in volo ad ali spiegate verso la conquista di ideali spazi aperti, uccelli che costituiscono il tema di una lunga serie di disegni, litografie, decorazioni e dipinti.
Si può anche pensare che – come capita in molti percorsi culturali epocali in cui al “Classico” segue il “Barocco” o (come nel nostro Ottocento) a una stagione di curiosità eclettiche segue una primavera di “Art Nouveau” fatta di sensuali volute e di fantasiosi turgori – così può accadere a un’artista come Elisa Traverso di trovarsi ad inseguire – nell’età più matura – mondi iperuranii composti da quei frammenti, da quelle tessere colorate che – sotto un’osservazione attenta e partecipe – realizzano unità di senso e vasti approdi pittorici.
Quanto al trasformarsi del tratto pittorico voglio ricordare qui l’esperienza di un Mondrian, che nel ritrarre per esempio un albero passa negli anni dal 1909 al 1912 da una visione pressoché naturalistica ad una visione astratta. Si ritiene anzi che la natura sopravviva nella pittura di Mondrian anche nella definitiva stagione dei quadri a righe e riquadri intersecantisi (ma questa è forse un’esagerazione della critica).
Più interessante è magari notare quanto il variare degli stati d’animo degli artisti abbia il potere di modificare il tono delle loro opere, magari anche solo di qualcuna nel trascorrere di uno stile già in tutto o in parte codificato. Cito i casi di Van Gogh e di Boccioni…ma non vorrei divagare troppo.
Tornando per un attimo al tema accennato della lettura del mondo, mi interessa far presente qui quanto in generale l’arte possa essere considerata in parallelo con la scienza: diversa per contenuti, ma sicuramente strumento di conoscenza della realtà altrettanto efficace.
Certo distinte sono le modalità di apprendimento dei fenomeni – naturali e non – della realtà, ma sembra ormai acquisito – così per la scienza come per l’arte – che un indirizzo di ricerca non esclude altri indirizzi – anche relativi ad argomenti simili ma fatti con mentalità diverse – e che solo la multiformità delle letture può rappresentare lo specchio tendenzialmente esauriente del vero.
In altre parole ogni teoria scientifica – anche nel caso in cui sembra contradditoria con le altre – spiega quote di realtà che altre hanno difficoltà a dimostrare, così come le diverse stagioni dell’arte, i diversi approcci dei diversi artisti all’arte nonché le varianti sincere all’interno del lavoro degli artisti stessi spiegano il lavoro articolato – ma mai inutile e soprattutto mai definitivo – della ricerca di un vero che attinge alla bellezza del mondo.
C’è un episodio nella vita del grande scienziato del Novecento Werner Heisemberg (1901-1976) – il padre del principio di indeterminazione – che Eugenio Scalfari ha ripreso in un articolo di 10 anni fa: Heisemberg aveva passato una giornata in un castello a discutere con altri scienziati di fisica, di metafisica, del senso della vita e del tutto ma – arrivato a sera – egli si riconosceva profondamente insoddisfatto dei risultati del dibattito. Heisemberg ha lasciato scritto, e Scalfari ha riportato: Nel grande cortile del castello le ombre si allungarono, scese la luce grigia del crepuscolo e poi la notte rischiarata dalla luna. A questo punto su una balconata apparve un ragazzo con un violino e risuonarono i primi accordi in re minore della “Ciaccona” di Bach. Di colpo, con assoluta certezza, seppi di aver trovato il collegamento con quel centro che mi mancava. Il limpido fraseggio della “Ciaccona” spazzava via le nebbie, mostrandomi le gigantesche strutture che fino ad allora mi erano rimaste nascoste. Scalfari commenta: La chiave dell’assoluto che la scienza non riuscirà a raggiungere per le limitazioni organiche della mente indagatrice viene disvelata dalla grande arte, da quella che Nietsche aveva già definito “il grande stile”. La chiave, dunque, soltanto l’intuizione artistica la può possedere, perché l’arte comprende dall’interno. Dall’interno di sé.
Forse – non è proibito pensare “in grande” – è proprio a questo che siamo tutti chiamati; a essere musica, a essere il più possibile conformi al “grande stile”, a essere armonia, in una parola a essere arte, ossia relazione armoniosa dispiegata nella sua assolutezza, immediata simpatia per ogni frammento dell’essere: per l’essere personale degli uomini intesi come “Adam” (uomini e donne), per l’essere impersonale del mare e del cielo, per l’essere a metà strada delle piante e degli animali.
Sono appunto le “gigantesche strutture” dell’essere intravviste da Heisemberg nella musica di Bach a svelarci il senso più profondo del mondo e della vita.
Voglio – concludendo – credere che le mosse della più recente arte di Elisa Traverso Lacchini potrebbero essere viste come manifestazioni di una rinnovata gioia instillata dalla permanente fiducia negli scopi della vita, come immaginoso e vigoroso “pieno” per l’acquisito piacere di nuove avventure (quella di diventare nonni – lo posso assicurare personalmente – è una di queste) che la vita talora inopinatamente riserva. I pesci mobili in cerchio, i fiori-uccelli, il vento nei capelli e in altre versioni del suo soffio vivificante, l’amore delle Madri-Terra sarebbero in questo caso validi testimoni di questa sopravveniente grazia esistenziale.

 

GIUSEPPE MAGINI

   
 

Torna alle recensioni